https://sarastampa.wordpress.com/2016/04/07/4-giugno-1944-leccidio-di-la-storta/
Direzione Roma. Con la mia ormai mitica 600 verde sono in fila da una decina di minuti lungo la Cassia, poco prima del semaforo che precede l’incrocio con la Trionfale.
Si procede a passo d’uomo e la noia, insieme a un pizzico di nervosismo, cominciano ad affacciarsi. E’ novembre e il cielo è grigio anche se non piove e non fa particolarmente freddo. Mentre sto per rimettere per l’ennesima volta la prima marcia, il mio sguardo viene attirato da una lapide: è incastonata in un angolo di verde, bianca, con le scritte rosse, proprio all’incrocio con via Giulio Galli.
Si procede a passo d’uomo e la noia, insieme a un pizzico di nervosismo, cominciano ad affacciarsi. E’ novembre e il cielo è grigio anche se non piove e non fa particolarmente freddo. Mentre sto per rimettere per l’ennesima volta la prima marcia, il mio sguardo viene attirato da una lapide: è incastonata in un angolo di verde, bianca, con le scritte rosse, proprio all’incrocio con via Giulio Galli.
Da lì ero passata davvero tante volte ma non l’avevo MAI notata o meglio non mi ero mai soffermata a leggerla con attenzione. La parte scritta con caratteri più grandi recita “Demmo la vita per la libertà“. Una frase diretta. Scritta come se a parlare fossero direttamente i nomi scritti più in basso.
Come già era accaduto a Bassano Romano (Vt) con gli avieri sardi, questa frase solletica la mia curiosità al punto tale da spingermi a documentarmi.
Così, finiti i miei giri romani che avevo in programma, al rientro decido di tornare sul posto o meglio decido di andare a ricercare “il posto”. Infatti qualche ora prima, mentre ero in attesa di un mezzo pubblico, con il cellulare avevo iniziato subito a cercare di saperne di più e immediatamente ero venuta a sapere che, in realtà la lapide che avevo visto, era solo “un’anticipazione visibile” del luogo nascosto di un eccidio che aveva visto coinvolte 14 persone. L’esecuzione, ad opera dei tedeschi, avvenne in un vicino boschetto.
Così di nuovo sulla Cassia, imbocco Via Giulio Galli e la percorro fino in fondo trovandomi in un angolo meraviglioso di campagna romana, davvero inaspettato. Mi giro e mi rigiro ma di questo boschetto non vedo tracce o meglio, le intravedo sulla mia sinistra ma il posto, da dove sono, non è raggiungibile con la macchina. Potrei avventurarmi a piedi tra i campi ma non ho l’abbigliamento giusto (tutto questo non era nei miei programmi di giornata!), così ritorno indietro e cerco di arrivarci tramite strada asfaltata, prendendo la via precedente a quella che avevo imboccato. Dopo una discesa e una serie di palazzoni… ecco trovato il boschetto!
Così, finiti i miei giri romani che avevo in programma, al rientro decido di tornare sul posto o meglio decido di andare a ricercare “il posto”. Infatti qualche ora prima, mentre ero in attesa di un mezzo pubblico, con il cellulare avevo iniziato subito a cercare di saperne di più e immediatamente ero venuta a sapere che, in realtà la lapide che avevo visto, era solo “un’anticipazione visibile” del luogo nascosto di un eccidio che aveva visto coinvolte 14 persone. L’esecuzione, ad opera dei tedeschi, avvenne in un vicino boschetto.
Così di nuovo sulla Cassia, imbocco Via Giulio Galli e la percorro fino in fondo trovandomi in un angolo meraviglioso di campagna romana, davvero inaspettato. Mi giro e mi rigiro ma di questo boschetto non vedo tracce o meglio, le intravedo sulla mia sinistra ma il posto, da dove sono, non è raggiungibile con la macchina. Potrei avventurarmi a piedi tra i campi ma non ho l’abbigliamento giusto (tutto questo non era nei miei programmi di giornata!), così ritorno indietro e cerco di arrivarci tramite strada asfaltata, prendendo la via precedente a quella che avevo imboccato. Dopo una discesa e una serie di palazzoni… ecco trovato il boschetto!
Parcheggio la macchina e subito, tra gli alberi, sopra una collinetta, in lontananza, vedo una lapide simile a quella sulla Cassia. La prima cosa che mi salta agli occhi è la presenza e la vicinanza di alcune abitazioni: quel boschetto sembra un mondo a parte rispetto alle case che lì sono costruite. Da un lato, uno scivolo di plastica per bambini, poco sopra, quel luogo che di fanciullesco ha davvero poco. Per arrivare in cima ci sono dei gradini che in maniera naturale percorro lentamente e con attenzione. Proprio guardandomi intorno noto qualcosa di particolare: gli alberi che costeggiano le scale hanno sul loro tronco degli oggetti che non riesco subito ad identificare Sono delle targhette e riportano dei nomi. Mi avvicino e leggo il primo: “Luigi Castellani”. E ancora “Dodi Piero”, “Tunetti Saverio”, “Arrighi Eugenio”, “Pennacchi Alberto”, “Libero De Angelis”, “Gabor Adler”, “Eramo Lino”, “Sorrentino Enrico”, “Brandimarte Alfeo”, “Bruno Buozzi”, “Di Pillo Edmondo”, “Borian Frejdrik” (non riesco a individuare la targhetta di Vincenzo Conversi).
Arrivata in cima trovo la lapide con tutti i nomi: è a forma di croce e inizia semplicemente con un “ALLA MEMORIA“. Poco più in basso, un altro marmo attira il mio sguardo: è datato 2009 e recita “l’inglese sconosciuto è stato identificato in Gabor Adler, Capt. John Armstrong“.
Resto in silenzio per un po’, l’idea che quegli alberi (delle acacie) abbiano un nome e, in un certo modo, continuino ancora oggi a fare rivivere quelle persone barbaramente uccise mi lascia una bella sensazione. Mi sembra un gesto semplice ma forte, sicuramente poetico e per certi versi commovente.
Risalgo in macchina e ritorno verso casa, con la radio di sottofondo e quel pensiero fisso nella mente: ma chissà chi erano quelle persone? Tutti maschi, di diverse nazionalità, accomunati forse solo dalla loro morte.
Risalgo in macchina e ritorno verso casa, con la radio di sottofondo e quel pensiero fisso nella mente: ma chissà chi erano quelle persone? Tutti maschi, di diverse nazionalità, accomunati forse solo dalla loro morte.
Nei giorni seguenti ho così iniziato a cercare materiali e informazioni per capire davvero cosa fosse successo il 4 giugno del 1944 in quel boschetto a due passi dalla Cassia e oggi circondato da palazzi. Questo è quello che ho “scoperto”.
Nella notte tra il 3 e il 4 giugno Roma vive la vigilia di un giorno importante, direi, storico: l’indomani gli Alleati sarebbero entrati in città. La notizia ovviamente era nota anche ai Tedeschi che così si prepararono alla ritirata, dirigendosi verso nord.
Anche il carcere di Via Tasso (dove le SS rinchiusero e torturarono più di 2000 antifascisti, alcuni dei quali morirono trucidati nell’eccidio di Forte Bravetta e delle Fosse Ardeatine) venne coinvolto in questa fuga. E così, proprio in quella notte, dopo avere bruciato molti documenti, tra i tanti mezzi in partenza, da lì era previsto che partissero due camion carichi di prigionieri. Il motivo più plausibile di questa scelta era semplice: avere degli “ostaggi” poteva essere una cosa utile in caso di necessità. Uno dei due automezzi però non riuscì a partire (qualcuno ipotizza un guasto o un sabotaggio), l’altro, un Fiat 38R, invece sì. Su quest’ultimo c’erano quattordici prigionieri, la maggiore parte socialisti e appartenenti al fronte militare anti fascista.
Il carcere era vicino a Piazza San Giovanni (a poca distanza dall’attuale stazione della metro di Manzoni) e così, per uscire da Roma, non ci volle tanto tempo. Alle prima luci dell’alba, la colonna militare tedesca, dopo avere attraversato Porta del popolo e proseguito la sua strada, si fermò (qualcuno ipotizza nuovamente per un guasto) a La Storta, al km 14.200 di via Cassia. All’epoca la zona non era piena di abitazioni come adesso e si era di fatto in aperta campagna. Insomma i Tedeschi, dopo avere avuto l’accortezza di nascondere in un casolare e alla vista degli aerei alleati il camion, erano tranquilli di stare in un luogo sicuro, lontano dal cuore della capitale e con ampi spazi a disposizione in caso di fuga improvvisa. I 14 prigionieri vennero richiusi all’interno della tenuta del conte Grazioli (vice presidente della Cassa di Risparmio di Roma) dove rimasero tutta la mattina. Nel pomeriggio accadde ciò che ancora oggi sembra non avere spiegazione: i 14 uomini vennero portati in un boschetto dove furono giustiziati con un colpo di pistola alla testa dall’ufficiale delle SS Hans Kahrau (così come avvenne nell’eccidio delle Fosse Ardeatine). I corpi vennero lasciati lì e solo qualche giorno dopo spostati, consegnati dagli abitanti del posto alle autorità per il riconoscimento e poi sepolti.
Ma quali sono i motivi di questo eccidio? Tre sono le ipotesi più avvalorate:
1) il camion si ruppe per un guasto e quindi i prigionieri erano di fatto diventati un peso per la ritirata verso nord
2) si decise di fare spazio nel mezzo per ospitare “il bottino” fatto e da fare durante la ritirata
3) arrivò un ordine dall’alto e l’ufficiale Kahrau si limitò ad eseguirlo
A sostegno di quest’ultima versione ci sono i racconti di alcuni contadini presenti sul posto quel 4 giugno: raccontarono che, proprio quel pomeriggio, videro arrivare e subito ripartire una moto. Quasi come se avesse portato un dispaccio che, da alcune recenti ricerche, sembra essere arrivato direttamente dal tenente Erich Priebke.
E ancora: chi erano quelle quattordici persone uccise? L’attenzione della stampa nell’immediato dell’accaduto si focalizzò, come era naturale che fosse, sul sindacalista Bruno Buozzi e, negli ultimi anni, invece su Gabor Adler. Prima di parlare di loro, vorrei però raccontare un po’ della vita delle altre vittime.
– Luigi Castellani, era un impiegato del Ministero dell’Interno con una grande passione per la xilografia, tanto da riuscire ad esporre le sue opere anche fuori dall’Italia. Venne arrestato il 4 aprile del 1944 insieme al cognato socialista Ceci Luigi, proprio per averlo protetto. Dopo essere stato recluso a Regina Coeli, il 23 maggio (quattro giorni dopo il suo compleanno) venne trasferito nella prigione di Via Tasso. Quando morì aveva da poco compiuto 40 anni.
– Dodi Piero, di origini fiorentine, era stato generale di cavalleria durante la prima guerra mondiale e dal 1921 si occupò di insegnare agli allievi della scuola militare l’uso dell’arma. Dopo l’8 settembre 1943 entrò come partigiano nella formazione “Rosi”. Venne catturato il 15 maggio del 1944 e fu ferocemente torturato dalle SS per riuscire ad avere da lui informazioni in merito all’organizzazione partigiana romana. Morì a 64 anni
– Tunetti Saverio, era un insegnante delle elementari di origini siciliane. Dopo l’8 settembre 1943 entrò a fare parte delle brigate Matteotti dove diventò responsabile della III zona. Venne arrestato il 5 maggio del 1944 dopo avere esposto una grande bandiera rossa in Piazza Melozzo da Forlì in occasione della Festa dei Lavoratori. Per questo fu richiuso e torturato nel carcere di Via Tasso . Morì a 31 anni.
– Arrighi Eugenio, era un tenente di origini onduregne e secondo alcuni era anche uno degli informatori della V armata americana. Venne arrestato a Piazza Bologna il 5 maggio del 1944. Morì a 24 anni.
– Pennacchi Alberto, era un tipografo che si schierò con il fronte partigiano ed in particolare con le Brigate Matteotti. Venne arrestato a Ponte Garibaldi perché trasportava delle armi. Morì a 36 anni
– Libero De Angelis era un meccanico nato e cresciuto alla Garbatella. Scappò dalla deportazione in Grecia e, tornato a Roma, entrò subito nelle Brigate Matteotti dove svolse attività di collegamento. Venne arrestato per delazione il 3 aprile 1944 . Morì a 22 anni (il più giovane delle quattordici vittime).
– Eramo Salvatore Lino, era un avvocato che collaborava con il quotidiano romano Il Messaggero. Venne accusato di essere in contatto con i partigiani e per questo venne arrestato e portato nel carcere di Via Tasso. Morì a 48 anni.
– Sorrentino Enrico, era capitano delle forze armate italiane ma soprattutto ufficiale di collegamento con l’O.S.S. (Office of Strategic Services), appartenente al Fronte militare clandestino. Venne arrestato il 4 maggio a seguito di delazione. Morì a 42 anni.
– Brandimarte Alfeo, era un ingegnere di origine marchigiana (laureato a 22 anni al Politecnico di Torino) che ebbe una brillante carriera militare. Già maggiore delle Armi Navali, divenne vice direttore dell’Istituto Elettronico presso l’Accademia Navale di Livorno. Dopo l’8 settembre 1943 entrò nella Resistenza romana (fronte militare clandestino), dando un fondamentale contributo per istituire collegamenti radio ed assicurare documenti e prezioso materiale al Fronte di Liberazione. Fu arrestato il 25 maggio del 1944 a seguito di delazione. Morì a 37 anni.
– Di Pillo Edmondo, ingegnere abruzzese, era direttore della sede romana della Ditta Bombrini Parodi Delfino. Fino al settembre del 1943 non si occupò mai di politica ma dopo divenne membro del Consiglio Direttivo dell’Unione democratica e agente dell’O.S.S. (Office of Strategic Services), stabilendo contatti con gli ufficiali della V Armata Americana, organizzando il trasporto sulla costa del Tirreno di agenti segreti e di radiotelegrafisti, guidando azioni di sabotaggio nei dintorni di Roma. Fu arrestato con la moglie il 27 maggio 1944 e alcuni testimoni suoi compagni di cella riferiscono così il suo rientro dopo uno dei tanti interrogatori ai quali venne sottoposto: “era davvero irriconoscibile per le torture subite ma, nonostante questo, con la bocca sanguinante, riuscì a dire “Io non ho parlato, ragazzi. Coraggio, a voi ora!”. Morì a 40 anni.
– Vincenzo Conversi, era un semplice ragioniere che diventò un radio operatore al servizio dell’O.S.S. (Office of Strategic Services), l’Ufficio Informazioni delle Forze Armate statunitensi. E’ colui di cui si hanno meno informazioni. Si ipotizza fosse appartenente alle Brigate Matteotti ma non si sa né quando né perché venne arrestato. Morì a 28 anni.
– Borian Frejdrik, ebreo polacco, era un ingegnere (o forse un architetto) e socialista che decise di entrare nelle fila della Resistenza ed in particolare nelle Brigate Matteotti. Fu arrestato nei primi di Maggio del 1944 e morì a 24 anni.
Nomi che mostrano un’eterogeneità assoluta: età diverse, lavori diversi, nazionalità diverse, storie di vita diverse. Ad accomunarli solamente la voglia di opporsi al regime nazi fascista, al punto tale di morire per questo. Ma certamente la figura che fece finire l’eccidio sulle prime pagine dei giornali dell’epoca fu quella di Bruno Buozzi: “BRUNO BUOZZI Segretario della Confederazione Generale del Lavoro assassinato dai nazisti con 14 compagni”. Questo il titolo de L’Avanti, il quotidiano del partito socialista di cui tante volte lo stesso Buozzi era stato deputato.
Nato in una frazione del Comune di Ferrara, Bruno Buozzi fu di fatto uno dei sindacalisti più importanti dell’inizio ‘900. Dopo avere rifiutato più volte il corteggiamento di Benito Mussolini, si schierò apertamente contro il regime fascista e nel dicembre del 1925 accettò la carica di segretario della CGIL, dopo essere stato eletto più volte come deputato del PSI. Nel 1926, a seguito dell’ennesima minaccia di morte, si trasferì in Francia dove però, nel 1942, venne arrestato dai Tedeschi e consegnato all’Italia. Dopo il 25 luglio del 1943, venne liberato e cominciò ad agire sotto falsa identità. Il 13 aprile del 1944 però venne arrestato durante una retata a Trastevere, in Viale del Re (oggi Viale Trastevere). I nazi fascisti non scoprirono subito chi fosse (all’inizio era registrato come Alberto Alberti) ma, quando riuscirono a farlo, lo inserirono subito tra i 160 prigionieri che, in vista dell’arrivo degli Alleati, dovevano essere evacuati da Roma. Morì a 63 anni.
Infine, un capitolo a parte lo merita la storia di John Armstrong, in realtà Gabor Adler, a lungo rimasto senza nome nell’elenco dei caduti dell’eccidio de La Storta. Per più di 60 anni, infatti, era conosciuto come “l’inglese sconosciuto” ma, grazie al ritrovamento incrociato di documenti negli archivi britannici e italiani, è stato possibile ricostruire la sua identità e la sua storia, arrivando alla conclusione che non fosse affatto un cittadino inglese.
Adler Gabor era infatti di origini ungheresi (di Satu Mare, nell’allora Transilvania ungherese, regione oggi rientrante nei confini della Romania) e entrò in Italia sotto identità nascosta, appunto con il nome di John Armstrong. L’unica cosa inglese che aveva era il suo “datore di lavoro”: in quegli anni era infatti un tenente del SOE (Special Operation Executive), il braccio operativo dei servizi segreti inglesi. Venne inviato in Italia come spia e nel 1943, dopo essere fatto approdare con un sommergibile in Sardegna, venne catturato (o fatto catturare?) da militari italiani e trasferito nella capitale.
La Sardegna non fu scelta a caso. In quegli anni, infatti, le forze alleate, architettando un vero e proprio depistaggio, fecero temere ai nazi fascisti che il vero pericolo alleato provenisse da quella direzione e non dalla Sicilia, come di fatto poi avvenne. Dopo l’8 settembre, però, Adler finì nelle mani della polizia di sicurezza tedesca e così venne prima trasferito a Regina Coeli e poi al carcere di Via Tasso. Dalle carte risulta addirittura che persino il Vaticano si interessò per una sua liberazione, senza però ottenere risultati concreti.
Ma prima di essere un “agente segreto”. qual’era la sua vita? Aveva origini ebraiche e studiò sia in Italia che in Germania. La sua famiglia si trasferì in Trentino nel 1922 (quindi dopo pochi mesi dall’annessione al Regno d’Italia) e poi, dopo circa tre anni, andò in Germania dove restò fino al 1934 quando, per convenienza, Adler entrò a fare parte del partito fascista e lavorò prima in un ufficio pubblicitario e poi in un’azienda di import di carbone di Milano. Proprio nella città meneghina nel 1935 la mamma, dopo la morte del papà, aveva deciso di trasferirsi. Nel 1939, l’anno successivo alle leggi razziali, (ricordo le sue origini ebraiche!) si trasferì in Marocco dove lavorò come cameriere, imbianchino e dove, per la prima volta, prese contatti con il Consolato inglese, diventando volontario dell’esercito di Sua Maestà la Regina. Nel 1941 si trasferì prima a Gibilterra e poi a Londra dove venne addestrato alla Royal Victoria Patriotic School. Da qui in avanti iniziò la sua doppia e tripla vita e il suo valzer delle identità: da Gabriele Bianchi a John Armstrong. Il resto della sua storia purtroppo è la stessa degli altri tredici morti di La Storta. Morì a 24 anni.
Finisce qui la mia breve ricostruzione di un fatto storico accaduto ormai 72 anni fa. Una ricostruzione nata nel traffico della Cassia ma soprattutto un modo semplice e affettuoso di ricordare quei nomi nascosti in quella “lapide parlante” e ritrovati sui tronchi rugosi delle acacie. Sono convinta che tutti coloro che la leggeranno contribuiranno a tenere viva la linfa degli alberi che ospitano ancora oggi quelle targhette che ci ricordano silenziosamente, tra un colpo di clacson e l’altro, il vero valore della vita.
Sara Pulvirenti