Il 5 maggio 1936 il maresciallo Pietro Badoglio entrava in Addis Abeba senza colpo ferire.
L’imperatore Hailè Selassiè l’aveva abbandonata tre giorni prima per prendere l’ultimo treno per
Gibuti e la via dell’esilio. L’8 maggio il generale Rodolfo Graziani occupava Harar e l’indomani Dire
Daua. La “guerra dei sette mesi” era finita. Alle 22.33 del 9 maggio Mussolini compariva al balcone di
Palazzo Venezia e annunciava alla folla che «i territori e le genti che appartennero all’impero d’Etiopia
sono posti sotto la sovranità piena e intera del Regno d’Italia». Il solenne avvenimento era così
commentato da una penna devota al regime, quella di Raffaele Carrieri: «Un mondo è crollato, un altro
sorge. Lo vediamo spuntare in questo magnifico silenzio come un’aurora dalle parole del Duce. Dopo
quindici secoli, Mussolini ha ridato a Roma il suo Impero immortale».
La situazione, in Etiopia, era in realtà meno benigna. Quasi due terzi dell’immenso paese erano
ancora da occupare ed erano sotto il controllo di capi e funzionari del negus. Si aggiunga che i resti
dell’esercito imperiale, circa 100.000 uomini, erano ancora attivi nel Sidamo, nel Bale, nel Goggiam,
nel Gimma, nell’Hararghiè, al comando di capi di provata efficienza, come i ras Destà Damtèu e
Immirù Haile Sellase, i degiac Bejenè Merid, Gabre Mariam, Maconnen Uoseniè. Per finire, i 10.000
soldati che presidiavano Addis Abeba erano praticamente assediati dagli armati dei fratelli Cassa.
Intuendo il pericolo, e impaziente di riscuotere i doni, le prebende e gli incarichi che gli erano
stati promessi (fra tutti, un titolo nobiliare e tre milioni di lire per costruire una villa faraonica in via
Bruxelles a Roma), Badoglio si faceva richiamare in Italia e passava le consegne all’ambizioso
Graziani, nel frattempo promosso maresciallo d’Italia. Investito il 20 maggio del triplice incarico di
viceré, governatore generale e comandante superiore delle truppe, Graziani veniva nello stesso tempo
travolto dagli ordini telegrafici di Mussolini, che erano a dir poco insensati. Fingendo di ignorare che il
neoviceré era in pratica intrappolato in Addis Abeba, il 21 maggio il duce gli telegrafava: «Non si può
tardare oltre a marciare in direzione di Gore dove, secondo una lettera pubblicata dall’ex Ministro
Etiopico a Londra sul “Times”, esisterebbe un governo provvisorio abissino. Si tratta di una vescica ma
è bene bucarla».
Inutilmente Graziani cercava di spiegare all’impaziente Mussolini che lui era dispostissimo a
riprendere la marcia, ma la stagione delle piogge bloccava i movimenti su tutte le strade e rendeva
persino difficoltosi i rifornimenti alla capitale che, oltretutto, erano ostacolati dalle incursioni dei
ribelli. Mussolini non voleva sentire ragioni e pungolava il viceré con telegrammi di questo tenore:
«Tutti i ribelli fatti prigionieri devono essere passati per le armi». «Per finirla con i ribelli, come nel
caso di Ancober, impieghi i gas». «Autorizzo ancora una volta Vostra Eccellenza a iniziare e
condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni
complici. Senza la legge del taglione al decuplo non si sana la piaga in tempo utile. Attendo conferma».
Se si trattava di usare il pugno di ferro Graziani non aveva bisogno di sollecitazioni, lo aveva
ampiamente dimostrato in Libia. Sotto il suo comando, infatti, la controguerriglia sarebbe stata
condotta per venti mesi con metodi spietati, che violavano ogni legge di guerra. E, tuttavia, con scarsi
risultati. Appena veniva spento un focolaio di rivolta, subito se ne accendeva un altro, più vasto, più
inquietante. Nonostante le continue esecuzioni sommarie, le rappresaglie con i gas (verranno lanciate
552 bombe caricate a iprite e a fosgene per complessive 60 tonnellate), l’incendio di migliaia di
villaggi con le loro chiese, le deportazioni di intere comunità, la costruzione di nuovi campi di
concentramento, l’Etiopia appariva indomabile e continuava a essere inospitale. Quella che avrebbe
dovuto diventare una colonia di ripopolamento, la terra promessa per i coloni italiani (si parlava di
trapiantare in Etiopia da un milione a dieci milioni di contadini), non accoglierà, per la verità, durante i
cinque anni dell’occupazione fascista, che 3500 famiglie, distribuite su appena 114.000 ettari. Questi
coloni non faranno in tempo a dissodare le nere terre del Gimma, del Cercer, dell’Uogherà, perché le
prime cannonate della seconda guerra mondiale li strapperanno dai loro sogni.
La fine della stagione delle piogge e l’arrivo a Addis Abeba di notevoli rinforzi consentivano a
Graziani di allentare la morsa attorno alla capitale e di passare all’offensiva. Con una serie di
operazioni di grande polizia coloniale, i suoi generali riuscivano a battere le residue forze dei ras Destà
Damtèu e Immirù Haile Sellase e dei fratelli Cassa. Nel marzo 1937 l’occupazione dell’impero poteva
dirsi conclusa e integrale. In poco più di dieci mesi, quattro dei quali vanificati dalle grandi piogge, le
colonne partite da Addis Abeba, da Neghelli e da Harar avevano occupato più di 600.000 chilometri
quadrati di territorio, ridotto al silenzio le ultime armate del negus e catturato 140.000 fucili, 450
mitragliatrici e 50 cannoni. La vasta operazione, per la quale erano stati impegnati non meno di
200.000 uomini, era costata agli italiani e ai loro alleati un numero relativamente basso di morti: 45
ufficiali, 207 militari nazionali, 1200 soldati fra libici, eritrei e arabo-somali.
Contravvenendo a ogni regola di guerra, Mussolini e Graziani decidevano di considerare i capi
e i gregari fatti prigionieri non soldati di un esercito regolare, e quindi da risparmiare, bensì militari
ribelli e quindi da abbattere. In base a questo assurdo e criminale criterio venivano fucilati i tre fratelli
Cassa e persino gli abuna Petros e Micael. Non sfuggiva al massacro neppure il genero dell’imperatore,
ras Destà Damtèu. Il 12 febbraio 1937, mentre le residue forze del ras venivano accerchiate e decimate
a Gogetti, Graziani inviava al generale Geloso, che comandava le operazioni, questo telegramma:
«Rammento a V.E. l’ordine tassativo del Capo del Governo che tutti i capi e gli armati catturati,
qualunque grado essi abbiano, siano passati immediatamente per le armi». Ras Destà riusciva ancora
una volta, con una quarantina di seguaci, a sfuggire all’accerchiamento e a rifugiarsi nel villaggio
natale di Maskan. Ma veniva presto rintracciato, catturato e consegnato al capitano Tucci, il quale
inviava a Graziani il seguente telegramma: «Oggi 24, alle ore 6, la mia colonna ha fatto prigioniero ras
Destà Damtèu. In ottemperanza agli ordini di Sua Eccellenza il Capo del Governo, alle ore 17.30 è
stato passato per le armi».
I giornali italiani annunciavano l’uccisione del genero dell’imperatore con titoli a nove colonne,
e il vicesegretario dei GUF, Guido Pallotta, che interpretava i sentimenti della parte autenticamente
fascista della nazione, giungeva a scrivere: «E nello scroscio del plotone di esecuzione echeggiò la più
strafottente risata fascista in faccia al mondo, la sfida più cocente alle turbe sanzioniste. Schiaffone
magistrale che il capitano Tucci menò nella maniera squadrista sulle guance imbellettate della
baldracca ginevrina». Pallotta aveva ragione. L’Italia fascista aveva fatto un salto di qualità. Oramai
non c’era consuetudine, legge, giudizio morale, che la frenasse. L’impero italiano d’Etiopia si stava
rivelando un immenso laboratorio, dove un popolo cosiddetto civile manifestava i suoi istinti più bassi
e sperimentava su larga scala le tecniche del genocidio.
Ad appena nove mesi da quando Rodolfo Graziani era stato nominato da Mussolini viceré
d’Etiopia, il clima a Addis Abeba era particolarmente pesante e l’atmosfera di insicurezza era
palpabile. C’erano, nella capitale, alcune migliaia di etiopici che piangevano i loro cari uccisi durante le
operazioni di grande polizia coloniale. C’erano molti altri in ansia per la scomparsa dei loro congiunti,
probabilmente finiti nelle prigioni italiane. Continuava, inesorabile, la caccia ai cadetti della Scuola
militare di Olettà e dei giovani che si erano laureati all’estero, per i quali, sin dal 3 maggio 1936,
Mussolini aveva emesso questa sentenza: «Siano fucilati sommariamente tutti i cosiddetti giovani,
etiopici, barbari crudeli e pretenziosi, autori morali dei saccheggi». Infine, dalle regioni vicine, dove
era attiva la resistenza degli arbegnuoc, dei partigiani, giungevano notizie di scontri, di eccidi, di
razzie, di incendi di villaggi, dell’uso sistematico dei gas.
Erano presenti tutti gli elementi perché si scatenasse una rivolta o, per lo meno, un disperato
atto di protesta. Di questo gesto estremo si incaricavano due giovani studenti di origine eritrea,
Abraham Debotch e Mogus Asghedom, i quali, nei giorni precedenti all’attentato a Graziani, con la
complicità di un tassista hararino, Semeon Adefres, e del capo ribelle Ficrè Mariam, si erano addestrati
al lancio delle bombe a mano sulle pendici del monte Zuqualà. Il 19 febbraio 1937, approfittando di
una cerimonia che si teneva nel recinto del Piccolo Ghebì, per solennizzare la nascita del primogenito
del principe Umberto di Savoia, i due eritrei, eludendo il servizio d’ordine, si introducevano nel
palazzo, salivano al primo piano e accedevano alla balconata, che dava proprio sulla scalinata
d’accesso al palazzo dove le autorità si erano sistemate. Era quasi mezzogiorno quando i due attentatori
cominciavano a lanciare le bombe a mano Breda (otto in tutto) sul viceré Graziani e le autorità italiane
ed etiopiche che lo circondavano. Il bilancio era gravissimo: sette morti e una cinquantina di feriti, e fra
questi lo stesso Graziani, il vice-governatore generale Petretti, i generali Liotta, Gariboldi e Armando, i
colonnelli Mazzi e Amantea, il governatore di Addis Abeba Siniscalchi, l’ispettore fascista del lavoro
per l’Africa Orientale Italiana, onorevole Fossa, il federale Cortese, l’abuna Cirillo, il degiac Hailè
Selassiè Gugsa.
Approfittando dello scompiglio generale, i due eritrei uscivano dal palazzo e poi dal recinto
seguendo un percorso studiato a lungo. Fuori, ad attenderli, c’era Semeon Adefres, con la sua Opel, che
li portava in salvo nella città conventuale di Debrà Libanòs. In seguito i due eritrei avrebbero raggiunto
le formazioni partigiane di ras Abebè Aregai, con le quali avrebbero operato per un certo periodo. Più
tardi decidevano di raggiungere il Sudan, ma venivano uccisi durante il viaggio in circostanze rimaste
oscure. Quanto a Semeon Adefres, la cui scomparsa da Addis Abeba, per alcuni giorni, era stata
segnalata all’Ufficio Politico della capitale, veniva tratto in arresto e torturato sino alla morte. Il suo
corpo, ricuperato dalla sorella, riposa ora nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo.
Subito dopo aver appreso la notizia dell’attentato, Mussolini inviava a Graziani, che nel
frattempo era stato ricoverato in ospedale, essendo stato investito da 350 schegge, questo telegramma:
«Non attribuisco al fatto una importanza maggiore di quella che effettivamente ha, ma ritengo che esso
debba segnare l’inizio di quel radicale ripulisti assolutamente, a mio avviso, necessario nello Scioa».
A Addis Abeba, l’uomo che prendeva immediatamente l’iniziativa di dare agli etiopici una lezione
indimenticabile non era però Graziani, che si limitava ad avallarla dall’ospedale trasformato in bunker,
bensì il federale fascista della capitale, Guido Cortese. La rappresaglia si scatenava quasi subito, nello
stesso pomeriggio del 19 febbraio. Il giornalista Ciro Poggiali annotava nel suo diario segreto:
Tutti i civili che si trovavano in Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta
fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di
sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada. […] Vedo un autista che, dopo
aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza, gli trapassa la testa da parte a parte con una
baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e innocente.
Un altro testimone dei fatti, Antonio Dordoni, che ben conosceva la comunità italiana della
capitale, così riferiva:
Nel tardo pomeriggio, dopo aver ricevuto disposizioni alla Casa del fascio, alcune centinaia di squadre
composte da camicie nere, autisti, ascari libici, si riversarono nei quartieri indigeni e diedero inizio alla
più forsennata «caccia al moro» che si fosse mai vista. In genere davano fuoco ai tucul con la benzina e
finivano a colpi di bombe a mano quelli che tentavano di sfuggire ai roghi. Intesi uno vantarsi di
«essersi fatto dieci tucul» con un solo fiasco di benzina. Un altro si lamentava di avere il braccio destro
stanco per il numero di granate che aveva lanciato. Molti di questi forsennati li conoscevo
personalmente. Erano commercianti, autisti, funzionari, gente che ritenevo serena e del tutto
rispettabile. Gente che non aveva mai sparato un solo colpo durante tutta la guerra e che ora rivelava
rancori ed una carica di violenza insospettati. Il fatto è che l’impunità era assoluta. Il solo rischio che si
correva era quello di guadagnarsi una medaglia. Che io sappia, i carabinieri intervennero una sola volta,
per impedire che si bruciassero i magazzini dell’indiano Mohamedally.
Di quel tremendo massacro disponiamo di tre fotografie, scattate dal giovane Alberto Imperiali,
il quale, con il padre, era in contatto con la resistenza etiopica. Si tratta di immagini nette,
inequivocabili, terrificanti, riprese nella zona di Gullalè, tra la chiesa dei Santi Pietro e Paolo e il Ghebì
di ras Hailù Tecla Haimanot. Il terreno, ondulato, è letteralmente coperto da cumuli di stracci bianchi.
Ma non si tratta di una immensa lavanderia indigena, bensì di cadaveri avvolti in fute bianche scaricati
alla rinfusa, con molta probabilità da autocarri. Soltanto qualche testa, qualche braccio, emergono dai
cumuli di stracci bianchi, a confermare che siamo di fronte a uno dei più odiosi eccidi della storia.
Proviamo a contare le vittime. Cento, duecento. Impossibile continuare...
Veniva dato alle fiamme anche l’interno della chiesa di San Giorgio, costruita ai tempi di
Menelik dall’ingegnere italiano Sebastiano Castagna. Un particolare che forse era sfuggito al federale
Cortese che aveva, di persona, impartito l’ordine di incendiare l’edificio. E solo l’intervento di un
colonnello dei granatieri impediva che una cinquantina di diaconi venisse spinta a scudisciate nel rogo. Mentre i civili organizzavano la rappresaglia contro una popolazione inerme e del tutto estranea
all’attentato, i militari operavano arresti in massa, convogliando circa 4000 etiopici in improvvisati
campi di concentramento. Ma dove la ritorsione assumeva le dimensioni di un genocidio era negli
agglomerati di tucul lungo i torrenti Ghenfilè e Ghilifalign, che attraversano la città da nord a sud. Presi
d’assalto a tarda sera e dati alle fiamme, ardevano per tutta la notte illuminando a giorno l’immensa
città-foresta.
«Da Piazza 5 maggio all’Ospedale americano se ne erano salvati ben pochi di tucul» ricordava a
sua volta il vercellese Alfredo Godio, che l’indomani mattina attraversava il quartiere. «E fra le
macerie c’erano cumuli di cadaveri bruciacchiati. Più tardi, sulla strada per Ambò, vidi passare molti
autocarri “634” sui quali erano stati accatastati, in un orribile groviglio, decine di corpi di abissini
uccisi».
«Per tre giorni durò il caos» riferiva l’attore Dante Galeazzi, finito in Etiopia per spirito
d’avventura, «per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni in Addis Abeba,
città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano». Il 21 febbraio, preoccupato per il
fatto che i diplomatici stranieri presenti nella capitale si muovevano armati di macchine fotografiche
per riprendere le immagini più crudeli della strage, Graziani autorizzava il colonnello Mazzi a inviare
al federale Cortese questo fonogramma a mano: «S.E. il viceré intende che cessino in modo assoluto le
rappresaglie».
Il federale acconsentiva e faceva diffondere nella mattinata un volantino in carta lucida, delle
dimensioni di 20 per 30 centimetri, con il bollo della Federazione dei Fasci di combattimento di Addis
Abeba, che diceva testualmente:
Camerati! Ordino che dalle 12 di oggi 21 febbraio XV cessi ogni e qualsiasi atto di rappresaglia. Alle
ore 21.30 i fascisti debbono ritirarsi nelle proprie abitazioni. SEVERISSIMI provvedimenti saranno
presi contro i trasgressori. Le auto pubbliche, private, ed i camions (meno quelli in servizio di Governo
e Militare) debbono cessare la circolazione alle ore 21. Il Segretario Federale
Il commento di Ciro Poggiali era lapidario: «Evidentemente non vi sono più né polli né talleri
da razziare». Quello di Dordoni rivelava una profonda indignazione: «Lo lessi e lo rilessi. Non
credevo ai miei occhi. Non credevo che, dopo una simile strage, si potessero mettere in giro documenti
del genere, che erano una palese autodenuncia».
Volendo dimostrare, ancora una volta, che lui era il più intransigente di tutti, il 21 febbraio 1937
Mussolini inviava a Graziani questo telegramma: «Nessuno dei fermi già effettuati e di quelli che si
faranno deve essere rilasciato senza mio ordine. Tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono
essere passati per le armi e senza indugi. Attendo conferma». Il 26 febbraio, dopo che l’avvocato
militare Bernardo Olivieri aveva rimesso a Graziani una relazione sul complotto, secondo la quale
l’attentato era maturato tra gli allievi della Scuola militare di Olettà (ma noi sappiamo invece che era
stato ideato e realizzato da tre sole persone), il viceré inviava a Mussolini questo dispaccio:
Duce, questa mattina sono stati passati per le armi quarantacinque fra notabili e gregari risultati
colpevoli manifesti dell’attentato del giorno 19. Sono ancora trattenuti al ghebì circa duecentocinquanta
notabili e rappresentanti del clero, per i quali mi riservo farvi proposte.
Ancora oggi, nonostante il più facile accesso agli archivi italiani ed etiopici, è impossibile
stabilire il numero esatto delle vittime di quei tre giorni di repressione. Nel memorandum presentato dal
governo etiopico al Consiglio dei ministri degli Esteri delle potenze vincitrici riunito a Londra nel
settembre 1945, si parla di «30.000 uccisi durante la strage del 1937». Ma è probabile che questa
cifra comprenda anche le successive uccisioni di patrioti, religiosi, indovini, cantastorie, eremiti legate
in qualche modo all’attentato a Graziani. I giornali inglesi, francesi e americani dell’epoca forniscono
cifre che oscillano fra 1400 e 6000 morti. Quanto a Graziani, il 22 febbraio tracciava per Mussolini
questo primo bilancio, che era estremamente riduttivo:
In questi tre giorni ho fatto compiere nella città perquisizioni con ordine di passare per le armi
chiunque fosse trovato in possesso di strumenti bellici, che le case relative fossero incendiate. Sono
state in conseguenza passate per le armi un migliaio di persone e bruciati quasi altrettanti tucul.
Dietro l’attentato del 19 febbraio 1937 non c’era alcun vasto complotto, di lunga gestazione,
come assicurava l’avvocato militare Olivieri. Ma l’affrettato e falso responso di Olivieri faceva comodo
a Graziani, che doveva portare a termine quel «radicale ripulisti» ordinatogli da Mussolini, e che lui
stesso, del resto, aveva suggerito. Come si è visto, il 26 febbraio faceva fucilare 45 «fra notabili e
gregari risultati colpevoli manifesti». Altri 26 venivano assassinati nei quattro giorni successivi. Con
queste esecuzioni, Graziani liquidava parte dell’intellighenzia etiopica: alti funzionari governativi,
giovani ufficiali, stretti collaboratori dell’imperatore, giovanissimi che si erano da poco laureati in Gran
Bretagna, Francia, Stati Uniti a spese di Hailè Selassiè.
Non era che l’inizio della repressione. Tra le varie proposte di Graziani a Mussolini c’era anche
quella «di radere al suolo tutta la vecchia città indigena e accampare tutta la popolazione in un campo
di concentramento». Mussolini, una volta tanto, si opponeva al mostruoso progetto, non perché gli
ripugnasse, ma perché «solleverebbe nel mondo una impressione sfavorevolissima e non
raggiungerebbe lo scopo». Approvava invece la proposta del viceré di deportare in Italia i notabili
che erano ancora ammassati, dal giorno dell’attentato, nei sotterranei del palazzo vicereale. Trasferiti in
volo ad Asmara, il 7 marzo 187 notabili, 8 donne e 2 bambini venivano imbarcati a Massaua sul
piroscafo Toscana. Nei mesi successivi, con quattro navi, erano deportati in Italia altri 200 aristocratici,
portando così il numero complessivo a 400. «Gli elementi di scarsa importanza ma comunque
nocivi» venivano invece rinchiusi nei campi di concentramento di Nocra, in Eritrea, e di Danane, in
Somalia, dove circa la metà moriva per malattia o per la scarsa e cattiva alimentazione.
Risolto, con la deportazione, il problema dei notabili scioani infidi, Graziani poteva dedicarsi
con maggiore impegno al «radicale ripulisti», cioè alla eliminazione di ogni oppositore, vero o presunto
che fosse. Si veda, per esempio, l’incredibile vicenda della strage di indovini e cantastorie. Il 19 marzo
Graziani notificava al ministro Lessona che gli organi di polizia gli avevano «concordemente
segnalato» che tra i «più pericolosi perturbatori dell’ordine pubblico» erano da annoverarsi i
cantastorie, gli indovini, gli stregoni, gli eremiti, che diffondevano ad arte notizie false o catastrofiche,
come l’imminente fine della dominazione italiana in Etiopia. «Convinto della necessità di stroncare
radicalmente questa mala pianta» continuava il viceré, «ho ordinato che tutti i cantastorie, indovini e
stregoni della città e dintorni fossero arrestati e passati per le armi. A tutt’oggi ne sono stati rastrellati
ed eliminati settanta». «Approvo quanto è stato fatto circa stregoni e ribelli» si affrettava a
rispondere Mussolini. «Occorre insistere sino a che la situazione non sia radicalmente e definitivamente
tranquilla».
Graziani non lo avrebbe deluso. «Dal 19 febbraio ad oggi» riferiva il 21 marzo a Mussolini
«sono state eseguite 324 esecuzioni sommarie, tuttavia con colpabilità sempre discriminata e
comprovata. Ripeto 324, senza naturalmente comprendere in questa cifra le repressioni dei giorni 19 e
20 febbraio». Il 30 aprile i «provvedimenti di rigore» salivano a 710. Il 5 luglio, a 1686. Il 25
luglio, a 1878. Il 3 agosto, a 1918. Poi il viceré cessava di tenere questa macabra e ripugnante
contabilità, ma da altre fonti sappiamo che le esecuzioni non conoscevano sosta ed erano compiute
nella più totale illegalità, senza istruttorie né processi, e spesso senza la minima prova, qualche volta
per vendetta, altre invece per coprire furti e rapine. Da una relazione del colonnello dei carabinieri
Azolino Hazon, apprendiamo che i soli carabinieri avevano passato per le armi 2509 etiopici tra
febbraio e maggio 1937.
Analizzando i dispacci che si sono scambiati Mussolini, Graziani, Lessona, Cortese, e i
documenti redatti dagli avvocati militari Olivieri e Franceschino e dal colonnello dei carabinieri Hazon,
riflettendo sul loro linguaggio, nel quale le espressioni più ricorrenti sono «passare per le armi»,
«liquidazioni», «ripulisti», «rappresaglia», c’è da chiedersi quale Etiopia stessero edificando e a chi
pensavano di consegnare questo sterminato cimitero. Se qualche governatore, come il generale Nasi,
tentava di limitare l’entità delle stragi, veniva immediatamente bacchettato da Graziani, che giudicava
insopportabile l’indulgenza del sottoposto: «Ordino che i 54 elementi di cui al comma primo siano
passati senz’altro per le armi. […] Ugualmente siano passati per le armi tutti gli indovini e gli stregoni.
[…] Prego darmi assicurazione con la parola “liquidazione”».
Ma il peggio doveva ancora venire.
Dopo aver esercitato la sua vendetta sulla nobiltà amhara, sugli esponenti di spicco
dell’intellighenzia etiopica, sui cadetti della Scuola militare di Olettà, sulla folla anonima e miserabile
di indovini, cantastorie, stregoni ed eremiti, nell’ultima decade di maggio Graziani prendeva come
bersaglio il clero cristianocopto e, in modo particolare, la città conventuale di Debrà Libanòs.
L’incarico di impartire questa nuova lezione veniva affidato al generale Pietro Maletti, il quale, a
differenza di Nasi, era un perfetto esecutore di ordini. Partito il 6 maggio 1937 da Debrà Berhàn,
attraversava il Mens, dove la resistenza era capeggiata dal degiac Auraris Dullu, comportandosi come
un nuovo Attila. Se prestiamo fede ai rapporti da lui redatti, in due settimane le sue truppe
incendiavano 115.422 tucul, tre chiese, il convento di Gulteniè Ghedem Micael (dopo averne fucilato i
monaci), e sterminavano 2523 arbegnuoc. Era tale il terrore che Maletti diffondeva che l’intera
popolazione del Mens si dava alla macchia. «Non una persona venne a presentarsi per atto di omaggio»
riferiva il generale a Graziani; «tutti i non combattenti erano fuggiti col bestiame e con le loro
masserizie, occultandosi nei valloni, nelle pieghe del terreno, negli anfratti e nelle numerose grotte
della regione. I preti, spogliate le chiese, smesso l’abito talare, si erano mescolati alla popolazione».
Per l’operazione contro Debrà Libanòs, che circondava nella serata del 19 maggio, Maletti
rinunciava a servirsi dei battaglioni eritrei, composti in gran parte da cristiani, e utilizzava ascari libici e
somali, di fede musulmana, e soprattutto
– sono parole sue – «i feroci eviratori galla della banda Mohamed Sultan: 1500 uomini armati di
pugnale, di lance e di vecchi fucili, agili come scimmie, liberi da ogni vincolo formale tattico e guidati
dal loro istinto infallibile».
Situato nello Scioa del Nord, il grande monastero di Debrà Libanòs era stato fondato nel XIII
secolo dal santo tigrino Tecle Haymanot e comprendeva due grandi chiese in muratura, un migliaio di
tucul abitati da monaci, preti, diaconi, studenti di teologia, suore e un centinaio di tombe di illustri capi
abissini, a guardia delle quali stavano monaci e cascì (sacerdoti). Mentre Maletti completava
l’occupazione della città conventuale, riceveva da Graziani un telegramma che diceva:
QUESTO AVVOCATO MILITARE MI COMUNICA PROPRIO IN QUESTO MOMENTO CHE HA
RAGGIUNTO LA PROVA ASSOLUTA DELLA CORREITÀ DEI MONACI DEL CONVENTO DI
DEBRÀ LIBANÒS CON GLI AUTORI DELL’ATTENTATO. PASSI PERTANTO PER LE ARMI
TUTTI I MONACI INDISTINTAMENTE, COMPRESO IL VICE-PRIORE. PREGO DARMI
ASSICURAZIONE COMUNICANDOMI NUMERO DI ESSI. DIA PUBBLICITÀ AT RAGIONI
DETERMINANTI PROVVEDIMENTO.
Per la verità, le prove scoperte dal maggiore Franceschino erano estremamente vaghe e, al
massimo, avrebbero potuto riguardare uno o più monaci e non l’intera comunità. Ma il viceré, da
tempo, era persuaso che il convento fosse «un covo di assassini, briganti e monaci assolutamente a noi
avversi». Pertanto non provava alcuno scrupolo a ordinarne lo sterminio.
Poiché Graziani aveva assicurato al ministro delle Colonie Lessona che «le esecuzioni disposte
in conseguenza del citato attentato saranno effettuate in luoghi isolati e che nessuno
– ribadisco: nessuno – può esserne testimone», Maletti provvedeva nella stessa giornata del
19 maggio a cercare un luogo adatto per il massacro. Lo scopriva a pochi chilometri da Debrà Libanòs,
nella località di Laga Wolde, una piana chiusa a ovest da un anfiteatro di cinque colline e a est dal
fiume Finche Wenz, che defluiva nel burrone di Zega Wedem. Il luogo era ideale perché disabitato e
per di più era accessibile agli autocarri che avrebbero trasportato le vittime.
Dopo alcuni sommari accertamenti e la separazione dei religiosi dagli occasionali pellegrini,
nella giornata del 21 maggio Maletti trasferiva nella piana di Laga Wolde i monaci selezionati. Nella
loro precisa ricostruzione dei fatti, i due docenti universitari Ian L. Campbell e Degife Gabre-Tsadik
riferiscono:
Le vittime furono spinte giù dal camion e furono rapidamente fatte allineare, con il viso a nord e la
schiena volta verso gli ascari. Furono quindi costrette a sedersi in fila lungo l’argine meridionale del
fiume, che in quel periodo dell’anno era quasi completamente in secca. Gli ascari presero quindi un
lungo telone, preparato appositamente per l’occasione, e lo stesero sui prigionieri come una stretta
tenda formando un cappuccio sopra la testa di ognuno di loro.
Si procedeva quindi alla fucilazione dei religiosi. E mentre un ufficiale italiano provvedeva a
sparare il colpo di grazia alla testa, vicino all’orecchio, gli ascari toglievano il telone nero dai cadaveri
per utilizzarlo per il successivo gruppo di condannati. Alle 15.30 del pomeriggio tutto era finito e
Graziani poteva annunciare a Roma che «oggi, alle 13 in punto», il generale Maletti «ha destinato al
plotone di esecuzione 297 monaci, incluso il vice-priore, e 23 laici sospetti di connivenza. Sono stati
risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale d’ordine, che verranno tradotti e trattenuti nelle
chiese di Debrà Berhàn. Il convento è stato di conseguenza chiuso definitivamente».
Ma tre giorni dopo il viceré cambiava idea, sembra su istigazione di ras Hailù Tecla Haimanot,
il più noto e spietato fra gli aristocratici collaborazionisti, e inviava a Maletti questa nuova direttiva:
«Confermo pienamente la responsabilità del convento di Debrà Libanòs. Ordino pertanto di passare
immediatamente per le armi tutti i diaconi di Debrà Libanòs. Assicuri con le parole: “Liquidazione
completa”». Il generale Maletti, con il consueto zelo, provvedeva subito a far scavare due profonde
fosse in località Engecha, a pochi chilometri da Debra Berhàn, e nella mattinata del 26 maggio faceva
sfilare davanti alle mitragliatrici 129 diaconi, martiri giovanetti che la cristianità non ricorda e non
piange perché africani e diversi. «Per cui» concludeva Graziani «la cifra dei giustiziati saliva a 449».
Ma la vera cifra degli assassinati era molto più alta, almeno tre volte superiore. Tra 1991 e 1994
i due docenti universitari già ricordati, l’inglese Ian L. Campbell e l’etiopico Degife Gabre-Tsadik,
eseguivano nel territorio di Debrà Libanòs un’ampia e approfondita ricerca, interrogando monaci,
cascì, civili, alcuni dei quali avevano assistito a una o più fasi del massacro. Dalle loro testimonianze
emergeva che i fucilati a Laga Wolde non erano 320 ma tra 1000 e 1600. Successivamente, tra 1993 e
1998, il professor Campbell proseguiva da solo le indagini spostandosi nella regione di Debrà Berhàn
per trovare informazioni sulla strage di Engecha. Egli non soltanto riusciva a localizzare le due fosse
che contenevano i corpi dei 129 diaconi, ma poteva raccogliere le deposizioni di due testimoni oculari
che avevano assistito alla strage dall’inizio alla fine. L’inchiesta di Campbell rivelava inoltre che
Graziani, nel comunicare a Lessona l’eliminazione dei diaconi, aveva sostenuto il falso. Egli, infatti,
non si era limitato a ordinare a Maletti la «liquidazione completa» dei 129 diaconi, ma gli aveva
ingiunto di sopprimere altri 276 etiopici, fra insegnanti, studenti di teologia, monaci e sacerdoti che
appartenevano ad altri monasteri e che nulla avevano a che fare con Debrà Libanòs. Per cui il bilancio
della strage di Engecha saliva a 400 vittime e quello complessivo della rappresaglia contro la città
conventuale di Debrà Libanòs si aggirava, secondo i due ricercatori, tra 1423 e 2033 morti. Mai,
nella storia dell’Africa, una comunità religiosa aveva subìto uno sterminio di tali proporzioni.
A differenza di altri massacri, dei quali Graziani cercherà in seguito di scaricare la colpa su
Mussolini e Lessona, oppure su alcuni suoi subalterni, quelli di Debrà Libanòs e di Engecha non lo
inquietavano, se ne assumeva l’intera responsabilità e se ne faceva anzi un titolo di merito, anche se
mentiva sul numero dei giustiziati. Scriveva in un suo memoriale:
Non è millanteria la mia quella di rivendicare la completa responsabilità della tremenda lezione data al
clero intero dell’Etiopia con la chiusura del convento di Debrà Libanòs, che da tutti era ritenuto
invulnerabile, e le misure di giustizia sommaria applicate sulla totalità dei monaci, a seguito delle
risultanze emerse a loro carico. Ma è semmai titolo di giusto orgoglio per me aver avuto la forza
d’animo di applicare un provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall’Abuna
all’ultimo prete o monaco, che da quel momento capirono la necessità di desistere dal loro
atteggiamento di ostilità a nostro riguardo, se non volevano essere radicalmente distrutti.
Se Graziani, con le selvagge repressioni del febbraio-maggio 1937, contava di impartire agli
etiopici una lezione durissima e indimenticabile, sbagliava i suoi calcoli. Le violenze indiscriminate
ottenevano al contrario l’effetto di spingere alla macchia tutti quelli che si sentivano in qualche modo
minacciati, di far cessare le sottomissioni, di convogliare nelle file degli insorti anche le popolazioni
contadine, che lamentavano i frequenti incendi dei loro villaggi. Con l’ingresso nella resistenza di
nuovi capi e di nuovi gregari, cambiavano radicalmente anche i metodi di lotta. Era lo stesso Graziani
che denunciava questo salto di qualità:
Le formazioni ribelli si sono organizzate meglio dei reparti militari regolari abissini che hanno preso
parte alla guerra. Fra esse è stata instaurata una disciplina ferrea e anche lievi negligenze e
disobbedienze sarebbero punite con la morte. […] La tattica adottata dai ribelli è di non farsi bloccare
dalle nostre truppe, condurre la guerriglia in tutte le regioni allo scopo di dimostrare che l’Etiopia non è
completamente conquistata.
La più vasta e indomabile rivolta si sviluppava nel Lasta. Nella seconda metà di agosto del 1937
l’ex governatore dell’Uag, degiac Hailù Chebbedè, invitava l’intera popolazione della regione a
condurre la “guerra santa” contro gli italiani e nel giro di pochi giorni annientava il presidio di Amba
Uorc e altri capisaldi vicini. L’incarico di braccare il degiac veniva affidato al colonnello Tosti, al quale
il generale Pirzio Biroli impartiva questi severissimi ordini: «Pertanto catturi il capo ribelle Hailù
Chebbedè, vivo o morto, impiccandolo poscia nella piazza di Socotà; passi per le armi i capi secondari
importanti; rada al suolo i paesi che hanno fatto causa comune con i ribelli». Mussolini era furente.
Questo impero che aveva tenacemente voluto e che ora minacciava di travolgere le finanze dello Stato
per il suo altissimo costo, era in perenne rivolta e disturbava i suoi disegni in Europa. Il 15 settembre
inviava pertanto a Graziani un telegramma dal tono poco amichevole e ultimativo: «Io sono disposto a
mandare battaglioni e aeroplani ma la rivolta deve essere stroncata con la più grande energia e nel più
breve tempo possibile. Non si perda altro tempo».
Il 19 settembre, a più di un mese dall’inizio della rivolta, Graziani riusciva finalmente a
completare la radunata e a investire il territorio di Socotà con 13 battaglioni di soldati nazionali ed
eritrei, appoggiati da oltre 10.000 irregolari. Attaccato da più di 20.000 uomini, bombardato da terra e
dal cielo, ipritato dalla 63ª squadriglia, Hailù Chebbedè, dopo un aspro combattimento e un vano
tentativo di rompere l’accerchiamento, veniva catturato dagli Uollo Galla del colonnello Raugei e
immediatamente passato per le armi. Ma non veniva «fucilato» come Mussolini comunicava a re
Vittorio Emanuele III. La sua fine era stata atroce, e il duce lo sapeva benissimo perché Graziani la
descriveva con macabra meticolosità in un dispaccio. Il degiac veniva in realtà decapitato (ma il
chirurgo Giuseppe Rotolo si era rifiutato di prestarsi alla bisogna), e la sua testa, infilzata su di una
picca, veniva esposta nella piazza del mercato di Socotà e poi in quella di Quoram.
Con questo barbaro spettacolo, da solo in grado di demolire la rispettabilità del vertice politico e
militare del regime, si concludeva il vicereame di Graziani in Etiopia. L’11 novembre 1937 Mussolini
gli inviava un lungo telegramma che aveva questo incipit: «Caro Graziani, con la liquidazione ormai
sicura e prossima dei conati di rivolta nell’Amhara e nello Scioa, ritengo che il suo compito sia finito»
428. Prima di lasciare Addis Abeba per fare ritorno in Italia, il maresciallo inviava a Mussolini il suo
ultimo rapporto, nel quale, per la prima volta, diceva la verità sull’altissimo costo dell’impero in
uomini e mezzi: «L’asprezza della lotta sostenuta in questi diciotto mesi dalla occupazione della
capitale […] è sintetizzata nei 13.000 uomini perduti, tra nazionali e coloniali, e 250 ufficiali, tre volte
cioè le perdite avutesi nella grossa guerra».
Mussolini sostituiva Graziani con Amedeo di Savoia duca d’Aosta, un personaggio di ben altro
spessore. Ma sino all’ultimo era incerto se ritirare o no la sua fiducia in quello che riconosceva come
l’italiano nuovo, ardito, inflessibile, spietato. Il loro lungo sodalizio verteva sul comune disprezzo per
gli africani e sulla complicità nei più esecrabili crimini. Se non avesse continuato a stimarlo, non si
spiegherebbe perché lo avrebbe richiamato, nel 1940, per affidargli la difesa della Libia. E perché,
dopo la pessima prova nei combattimenti in Africa settentrionale, gli avrebbe affidato il Ministero per
la Guerra della Repubblica di Salò.
Ma ancora una volta Graziani, l’italiano nuovo, lo avrebbe deluso. Anziché condividere con
Mussolini la fuga verso la Svizzera e la morte, si staccava dalla colonna dei fuggiaschi e a Cernobbio si
consegnava al capitano Emilio Daddario, dello stato maggiore dell’esercito americano, salvando la vita.
Al processo, fra le imputazioni, mancava ogni riferimento ai crimini commessi in Africa. Inutilmente il
governo etiopico avrebbe chiesto la sua estradizione. Oggi, a Filettino, suo paese natale, è venerato
come un santo.