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Il 9 giugno 1937 venivano uccisi dai sicari dei fascisti, in Francia, Carlo e Nello Rosselli

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È assai probabile che l’ordine di eliminare i fratelli Rosselli sia partito direttamente da Mussolini, per essere eseguito, con il tramite di Ciano e del servizio segreto italiano, da militanti dell’organizzazione eversiva dell’estrema destra francese “La Cagoule”, la cui storia è ancora secretata negli archivi francesi, in cambio di una partita di armi dall'Italia. Tuttavia, i retroscena dell’omicidio sono ancora in parte avvolti nel mistero; Tale organizzazione eversiva aveva appoggi e coperture sia a livello internazionale, sia all'interno dalle élite militari, istituzionali ed economiche francesi, e molti militanti confluirono poi nel regime di Vichy. Al di là delle condanne di alcuni presunti esecutori materiali avvenute nel dopoguerra, ancora oggi non esiste una verità giudiziaria certa del delitto Rosselli sebbene le responsabilità politiche siano più che certe.













In morte dei fratelli Rosselli
di Tomaso Montanari
«Di fronte al progressivo consolidarsi del fascismo, la nostra sistematica opposizione corrisponde ad un regolamento di conti fuori dalla storia: forse non avrà apparentemente nessuna positiva efficacia; ma io sento che abbiamo da assolvere una grande funzione, dando esempi di carattere e di forza morale alla generazione che viene dopo di noi, e sulla quale e per la quale dobbiamo lavorare».
È tutta racchiusa in queste parole – scritte da Carlo in Antifascismo perché, 12 gennaio 1925 – l’attualità della lezione dei fratelli Rosselli.
La loro testarda volontà di stare «fuori dalla storia», cioè di non pensare che – usiamo le parole di Gramsci – tutto ciò che esiste è naturale che esista.
In Italia l’apologia della necessità dello stato attuale delle cose ha una lunga e solida tradizione. In un passo struggente dei Diari (siamo nel 1939), Piero Calamandrei non si dà pace che i «giovani» (il figlio Franco e i suoi amici) pensino che «la storia è composta di fatti e non idee, e se Mussolini è riuscito a diventar dittatore, vuol dire che Mussolini è una realtà e che le idee impotenti degli oppositori sono un’irrealtà: per ora, finché c’è questa realtà, il migliore regime è questo, perché si regge. Rinunciano dunque a giudicarlo, a darne una valutazione morale: se noi non facciamo nulla per rovesciarlo, vuol dire che storicamente esso corrisponde alle necessità del presente che ce lo fa accettare».
Ebbene, Carlo e Nello Rosselli prima ancora che antifascisti sono anticonformisti: esercitano una critica radicale del reale che affonda le radici nell'essenza stessa della cultura umanistica, e segnatamente in quella storica.
È per questo che la giornata di oggi ha un doppio significato. Perché il ritorno a Firenze dell’Archivio Rosselli significa la possibilità di accedere non solo ad un fondamentale strumento storiografico, ma anche ad uno strumento di costruzione della coscienza civile. La voce dei Rosselli non torna a parlare solo agli studiosi, ma ad una comunità che ha un vitale bisogno degli anticorpi di una critica radicale.
La cultura come resistenza.
La cultura come mezzo per comprendere perché la maggioranza degli italiani non reagisse contro la minoranza fascista.
La cultura: è questo il senso profondo della radice fiorentina dell’esperienza dei Rosselli. «Prima di agire – ha scritto Calamandrei – bisognava capire. Per questo, come primo atto di serietà e responsabilità, essi promossero quelle riunioni di amici tormentati dalle stesse domande e assetati anch'essi di capire, che dettero origine al Circolo di Cultura … ci riunivamo in quella sala a leggere e a discutere: temi di politica, di economia, di letteratura, di morale. Una breve introduzione di un relatore preparato che poneva il tema, poi una discussione animatissima, che spesso si protraeva per ore. In ogni riunione le idee si chiarivano, i propositi si rafforzavano. A rileggere ora, a distanza di venti anni, i programmi di quelle riunioni, vi si ritrovavano tra i relatori nomi di uomini che poi, nel ventennio successivo hanno portato la stessa chiarezza di idee, la stessa fermezza di propositi negli esili, nelle carceri, nel sacrificio della vita». Finché il 31 dicembre del 1924 «una squadra di fascisti invase le sale e le devastò: dalle finestre che davano in piazza santa Trinita furono gettati di sotto tutti i mobili, i libri e le riviste, e ai piedi della Colonna che porta in cima la statua della Giustizia fu fatto d’essi un gran rogo».
Dieci anni più tardi, mentre Carlo è in Spagna, Nello fa parte di un altro circolo, informale ma straordinariamente importante: «negli anni pesanti e grigi nei quali si sentiva avvicinarsi la catastrofe – racconta ancora Calamandrei – facevo parte di un gruppo di amici che, non potendo sopportare l’afa morale delle città piene di falso tripudio e di funebri adunate coatte, fuggivamo ogni domenica a respirare su per i monti l’aria della libertà, e consolarci tra noi coll'amicizia, a ricercare in questi profili di orizzonti familiari il vero volto della patria». In questo gruppo che, tra il 1935 e lo scoppio della guerra, lasciava ogni domenica la Firenze fascista per cercare nel paesaggio e nei monumenti dell’Italia centrale un nuovo Risorgimento c’erano – oltre a Nello Rosselli e a Calamdrei – Luigi Russo, Pietro Pancrazi, Alessandro Levi, Guido Calogero, Attilio Momigliano, Ugo Enrico Paoli, talvolta Benedetto Croce, Adolfo Omodeo e in qualche occasione Leone Ginzburg.
Era il vertice della cultura italiana: il meglio dell’Italia antifascista. Fu un’esperienza profondissima, e profondamente politica: «Io pensavo – scriveva Calamandrei a Pancrazi – che qualcosa di eterno ci deve essere, se noi prendiamo tanto gusto ed affezione a queste nostre gite: nelle quali circola nel nostro pensiero una parola che non diciamo, per pudore, ma che pure, a ripensarla così di paese in paese, torna nuova, e pura: “patria!”». E quando Calamandrei apprese la notizia dell’assassinio scrisse questa lettera alla vedova di Nello, la signoria Maria Todesco: «Gentile Signora, non ho saputo trovare altro modo più eloquente per esprimerLe il mio dolore, che questo: di mandarLe qualche immagine del nostro Nello, tratta dalle fotografie delle indimenticabili passeggiate domenicali. Che erano, alla fine di ogni settimana, come un’attesa evasione dalla prigionia; e che ora, nel ricordo, sono una ragione per riempire di tristezza tutte le nostre giornate e per non poter posare gli occhi su paesi e su monti senza pensare a lui con un nodo alla gola». È anche in questa particolarissima immersione nel paesaggio e nell'arte che affonda le sue radici quello che diventerà l’articolo 9 della Costituzione. Un articolo che, al primo comma, mette alla base della Repubblica nascente proprio quello «sviluppo della cultura» che il circolo dei Rosselli aveva eletto a strumento fondamentale della lotta al fascismo.
Nel 1944 un altro intellettuale europeo, lo storico francese Marc Bloch, scriveva, nella sua Apologia della storia: «Nella nostra epoca, più che mai esposta alle tossine della menzogna e della falsa diceria che vergogna che il metodo critico della storia non figuri sia pure nel più piccolo cantuccio dei programmi d’insegnamento». Di fronte al nazismo e all'Olocausto il metodo critico della cultura umanistica sembrava ancora più necessario: Bloch – fucilato dalla Gestapo perché membro della Resistenza – la definisce «una nuova via verso il vero e, perciò, verso il giusto». Quel libro si apre con la domanda di un figlio a un padre: «Papà, spiegami allora a cosa serve la storia». Bloch risponde così: «L’oggetto della storia è, per natura, l’uomo … dietro i tratti concreti del paesaggio, dietro gli scritti, dietro le istituzioni, sono gli uomini che la storia vuol afferrare. Colui che non si spinge fin qui, non sarà mai altro, nel migliore dei casi, che un manovale dell’erudizione. Il bravo storico, invece, somiglia all'orco della favola. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda». È il metodo critico che ci permette di esercitare davvero la nostra sovranità di cittadini, che riesce ad attuare l’articolo 1 della nostra Costituzione. «La sovranità appartiene al popolo»: non si esercita, questa sovranità, senza consapevolezza culturale. È su questo fondamento che, nel dopoguerra, sono state ricostruite le democrazie europee. Ed è appunto per questo che la nostra Costituzione impone alla Repubblica di promuovere «lo sviluppo della cultura e la ricerca».
E trovo straordinariamente felice che nella casa fiorentina dei Rosselli, in Via Giuseppe Giusti 1938, abbia oggi sede il Kunsthistorishces Institut, l’Istituto Germanico di Storia dell’arte, una delle più importanti istituzioni di ricerca della storia dell’arte a livello mondiale. Un luogo di produzione della conoscenza, un istituto tedesco in Italia, un pezzo dell’Europa della conoscenza che aiuta a vedere che non esiste solo l’Europa delle banche. Su quella facciata di Via Giusti fu sempre Calamandrei a dettare questa iscrizione, che è forse la migliore conclusione di questa giornata:
Da questa casa
ove nel 1925
il primo foglio clandestino antifascista
dette alla resistenza la parola d’ordine
NON MOLLARE
fedeli a questa consegna
col pensiero e coll'azione
CARLO e NELLO ROSSELLI
soffrendo confini carceri esili
in Italia in Francia in Spagna
mossero consapevoli per diverse vie
incontro all'agguato fascista
che li ricongiunse nel sacrificio
il 9 giugno 1937
a Bagnoles de L’Orne
ma invano si illusero gli oppressori
di aver fatto la notte su quelle due fronti
quando spuntò l’alba
si videro in armi
su ogni vetta d’Italia
mille e mille col loro stesso volto
volontari delle brigate Rosselli
che sulla fiamma recavano impresso
grido lanciato da un popolo all'avvenire
GIUSTIZIA E LIBERTA’.
la Repubblica, 7 Giugno 2017

(*) Presidente di Giustizia e Libertà. Pubblichiamo il testo del discorso tenuto in occasione della ricorrenza dell’uccisione dei Rosselli, tenuto il 9 giugno 2017 all'Archivio di Stato di Firenze

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