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"Massimo Rendina partigiano: dall'8 settembre al 25 aprile" Articolo di Alessandro Portelli su Il Manifesto del 14.02.2015

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14 FEBBRAIO 2015


Massimo Rendina partigiano: dall'8 settembre al 25 aprile

il manifesto 14.2.2015 
Dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 l’appassionata storia e la vivida memoria nel racconto del comandante partigiano Massimo Rendina, uno dei veri protagonisti della Resistenza e dell’Italia democratica, raccolto da Alessandro Portelli in una intervista (parte di una lunga narrazione che va dall’infanzia veneziana all’antifascismo dei nostri giorni) presso la Casa della memoria e della Storia di Roma, di cui Rendina era stato un fondatore «Ero tor­nato a Bolo­gna dalla Rus­sia indi­gnato con­tro il fasci­smo per­ché i miei sol­dati li aveva man­dati a morire, senza armi, senza niente, e ripresi a lavo­rare al Resto del Car­lino. L’8 set­tem­bre andai a tro­vare i miei geni­tori a Torino, ma quel giorno i tede­schi entra­rono a Torino. Li vidi entrare, erano molto belli negli imper­mea­bili verdi, mi impres­sionò la dif­fe­renza con il nostro eser­cito scal­ci­nato. E c’erano delle donne che urla­vano, uno di loro sparò e credo che abbia col­pito qual­cuno. Non sono sicuro ma fu deter­mi­nante per me, fu come una ribel­lione inte­riore: gliela fac­cio pagare. Credo che sia suc­cesso a tanti che furono presi da sen­ti­menti diversi, ricordi della prima guerra mon­diale, i giu­ra­menti alla patria, io avevo giu­rato da uffi­ciale… Per cui non ci fu una base comune ma tante sto­rie indi­vi­duali che entra­rono nella Resistenza. «Pos­siamo farlo insieme» Entrai in un bar vicino alla sta­zione e c’era gente che diceva biso­gna fare qual­cosa, basta coi tede­schi, e c’era Cor­rado Bon­fan­tini, che disse: chi vuole fare qual­cosa, pos­siamo farlo insieme. Mi diede appun­ta­mento il giorno dopo e for­mammo le squa­dre, divise fra Par­tito d’Azione e socia­li­sti. Il nostro com­pito era infor­ma­tivo, di sabo­tag­gio e anche di eli­mi­na­zione, simile ai Gap. Io non sapevo che esi­stes­sero i Gap se non per sen­tito dire. Face­vamo le stesse cose, ma senza la stessa capa­cità orga­niz­za­tiva e senza le azioni glo­riose fatte dai Gap di Torino che erano coman­dati da Gio­vanni Pesce e da Ilio Baron­tini, che erano stati in Spa­gna. La prima cosa era pro­cu­rare le armi per for­mare squa­dre che potes­sero com­bat­tere seria­mente, e ali­men­tare la guer­ri­glia che si veniva for­mando in mon­ta­gna. Comun­que abbiamo com­piuto varie azioni, abbiamo fatto sal­tare gli impianti fer­ro­viari, varie cose che si dove­vano fare in quei tempi. Io ero abba­stanza esperto di esplo­sivi per­ché avevo fatto il corso gua­sta­tori nell’esercito. Anche eli­mi­na­zioni: c’era un reparto di poli­zia addetto con­tro i par­ti­giani, e io mi ero fatto amico, fin­gendo di esser fasci­sta, con uno di que­sti agenti che mi diceva come rice­ve­vano le infor­ma­zioni – le dela­zioni sono state mol­tis­sime per­ché erano ben pagate. E io ho par­te­ci­pato a que­ste azioni di eliminazione. I fasci­sti sco­pri­rono il comando mili­tare, col quale ero in con­tatto tra­mite i cat­to­lici. Fu preso in una chiesa, dove avrei dovuto tro­varmi anch’io, tutto il comando mili­tare del Cln e furono fuci­lati al Mar­ti­netto. Per­ché non andai a quell’incontro? Mi aveva man­dato Bon­fan­tini; lui disse a me di andare per­ché si sen­tiva seguito; ci vedemmo a distanza in piazza Cari­gnano e luI mi fece cenno di stare attento; appena fatto que­sto cenno gli sal­ta­rono addosso due, mi ricordo con imper­mea­bili chiari, gli sal­ta­rono addosso. Bon­fan­tini si divin­co­lava e gli spa­ra­rono alla schiena. Io mi allon­ta­nai, ero disar­mato, non andai a quell’appuntamento ma capii che la mia vita sarebbe stata in peri­colo. Mi dis­s­sero di rag­giun­gere un reparto di Giu­sti­zia e Libertà nel Mon­fer­rato. Però avrei dovuto por­tarmi die­tro dei ragazzi della Barca, una zona vicino a Torino, gio­va­nis­simi, ave­vano costi­tuito un distac­ca­mento e fatto delle azioni, quindi li cono­scevo bene. Nel frat­tempo venni a sapere che un ragazzo che si chia­mava Folco Por­ti­nari, che poi sarebbe diven­tato fun­zio­na­rio della Rai e docente, era stato preso dai tede­schi e gli ave­vano detto, a lui e altri, che se si arruo­la­vano nelle SS ita­liane avreb­bero avuto un trat­ta­mento par­ti­co­lare; se no, dove­vano andare ai lavori for­zati in Germania. A punta di pistola A punta di pistola mi feci con­se­gnare un camion dell’azienda del gas, e andai all’appuntamento con que­sti qua­ranta in divisa da SS. Salimmo sul camion e andammo a Superga. Deci­demmo di dor­mire lì nel campo, però i ragazzi della Barca sospet­ta­rono che que­ste SS erano vere, e discu­te­vano se ucci­dermi – poi deci­sero di aspet­tare e io ebbi salva la vita, ma per mira­colo. Fatto sta che con que­sto camion che tra l’altro non andava, uno sopra l’altro, rag­giun­gemmo la 19brigata, e lì mi dis­sero che avrei dovuto coman­dare que­sto reparto, che era piut­to­sto con­si­stente, poi però mi nomi­na­rono capo di stato mag­giore e pas­sammo nella val di Lanzo. Lì avemmo delle avven­ture piut­to­sto pesanti, dei rastrel­la­menti feroci. Uno di que­sti ci portò a disper­derci. La nostra tec­nica era di pre­ve­dere di doverci disper­dere e di avere dei punti di rac­colta. Il mio punto di rac­colta era una con­ce­ria, vicino al parco della Man­dria, e men­tre era­vamo lì che ci sta­vamo rior­ga­niz­zando arrivò uno che sem­brava un con­ta­dino a dire che c’era un car­rar­mato che ave­vano rimesso a posto, pro­prio den­tro la Man­dria, e lui ci avrebbe aperto una certa por­ti­cina e avremmo potuto recu­pe­rarlo. Andammo, presi una decina di uomini, c’era anche Adolfo, il com­mis­sa­rio poli­tico. Io per primo mi pre­sen­tai davanti a que­sta porta, e lui ebbe un’intuizione: mi mise il suo mitra sotto il brac­cio destro, e io avevo la pistola in mano e gli uomini die­tro. Aprimmo que­sta porta — e ci spa­ra­rono. Io non fui preso dai primi colpi per­ché quello che mi doveva ucci­dere fu col­pito da que­sto mitra di Adolfo, ma cadde per terra e sparò una raf­fica e fui ferito, fui ferito gra­ve­mente. Quelli che erano die­tro a me mi tira­rono indie­tro e mi sal­va­rono, men­tre que­sto Adolfo rimase in mano loro e fu preso e lo impiccarono. Mi nasco­sero nei sot­ter­ra­nei della con­ce­ria dove c’erano delle grandi cal­daie, faceva un caldo ter­ri­bile. La ferita mi faceva molto male, sbat­tevo la testa pen­sando di ammaz­zarmi, la pistola non ce l’avevo più, mi inton­tivo sol­tanto, fin­ché mi tira­rono fuori e mi sal­va­rono, pro­prio. Poi i nostri reparti si riu­ni­rono e ritor­nammo nel Mon­fer­rato, e io mi tro­vai in una cascina nel Mon­fer­rato dove vera­mente mi sal­va­rono la vita per­ché ci furono dei rastrel­la­menti feroci e que­sti con­ta­dini, non sapevo nean­che chi fos­sero, rischia­rono la pelle per nascon­dermi, face­vano delle buche col letame per­ché i tede­schi ave­vano dei cani che fiu­ta­vano, e mi sal­va­rono. Con­ti­nuai fino alla libe­ra­zione a zoppicare. Noi ave­vamo dei rap­porti straor­di­nari con la gente. Era­vamo, se si può dire, molto ric­chi, nel senso che una parte della cassa della quarta armata era stata redi­stri­buita alle for­ma­zioni par­ti­giane, soldi ci arri­va­vano anche dalla Fiat, poi anche gli alleati ci man­da­vano non armi ma soldi. Per cui il rap­porto con con­ta­dini era buono per­ché noi paga­vamo, non davamo i buoni. Molte volte erano gene­rosi, non vole­vano essere pagati a volte; noi abbiamo pas­sato un periodo molto buono dal punto di vista dell’alimentazione. Certo le con­di­zioni erano duris­sime ma l’accoglienza da parte della popo­la­zione fu una cosa straordinaria. Scen­demmo dalle montagne Quando scen­demmo dalle mon­ta­gne ci ponemmo il pro­blema di che tipo di guer­ri­glia fare. In pia­nura dove­vamo inven­tare, e io, per carità non pre­tendo di essere uno stra­tega, fui uno dei fau­tori della guerra delle volanti – cioè pren­demmo dei camion grossi, li facemmo coraz­zare, il padre di Ser­gio Pinin Farina ci fece coraz­zare dei camion con delle lastre di metallo, e quat­tro cin­que di quei camion diven­ta­vano una volante, si face­vano della azioni molto veloci soprat­tutto con­tro i posti di blocco, e ci si riti­rava. Durante i rastrel­la­menti si nascon­de­vano que­sti camion, li ave­vamo anche inter­rati con delle fati­che spa­ven­tose per fare delle buche enormi per que­sti camion. Facemmo delle azioni, pren­demmo anche una pic­cola città, Chieri, neu­tra­liz­zando con le volanti i pre­sidi vicini. Per sba­glio nelle prime luci dell’alba io spa­rai un colpo di bazooka con­tro il cam­pa­nile. La presa di Chieri, che pre­lude a Torino, fu inte­res­sante per­ché que­ste bri­gate nere erano gente feroce per cui tro­vammo nei sot­ter­ra­nei gente mori­bonda per­ché ave­vano messo fra le dita dei piedi del cotone imbe­vuto di qual­cosa che bru­ciava e gli ave­vano bru­ciato i piedi, erano in can­crena… E deci­demmo di fuci­larli in piazza, e li fuci­lammo dopo un pro­cesso in cui il pre­si­dente della corte era un uffi­ciale dei cara­bi­nieri che poi diventò il coman­dante dei cara­bi­nieri a Roma. I ricordi, anche dolorosi I ricordi si affa­stel­lano, sono anche dolo­rosi per­ché ci sono tanti morti. Di quei ragazzi della Barca una metà sono morti. Erano ragazzi di sedici, dicias­sette anni, e ave­vano molta fidu­cia in me. Il rap­porto di fidu­cia col coman­dante era impor­tante, non per­ché fosse più valo­roso o corag­gioso ma per­ché ti dava un minimo di sicu­rezza in una guerra così insi­cura come quella della guer­ri­glia. Io avevo l’esperienza della guerra di Rus­sia ma ho avuto delle paure ter­ri­bili. Tu non puoi avere paura: devi reci­tare, di fronte agli altri, per­ché se no li fai morire; la paura del coman­dante è la morte dei sot­to­po­sti. Tu devi reci­tare di sapere quello che vuoi, non avere incer­tezze; se mandi uno in un certo posto è per­ché sai che dev’essere così, que­sto l’avevo impa­rato in guerra in Russia. E così arri­vammo agli ultimi giorni tor­men­tati della presa di Torino. Noi ci atte­stammo sul Po, arrivò l’ordine dal comando di Torino di entrare in città, però di atte­starci prima sul Po per divi­dere le zone d’attacco. E men­tre era­vamo lì rice­vemmo l’ordine di non entrare a Torino. Il colon­nello Ste­vens della radio inglese aveva avuto infor­ma­zioni dal comando gene­rale dell’esercito inglese che c’era un rag­grup­pa­mento di divi­sioni tede­sche che stava pun­tando su Torino. Ste­vens diceva che se noi entra­vamo in Torino, Torino sarebbe stata distrutta, il san­gue sarebbe corso in un modo spa­ven­toso. Noi ci fer­mammo per qual­che ora, medi­tammo – ma la città era insorta, già nelle fab­bri­che si com­bat­teva. Allora Cola­ianni, che si chia­mava Bar­bato come nome di bat­ta­glia, che era il coman­dante della zona atte­stata sul Po, disse: biso­gna entrare. E io fui uno dei primi a entrare, coi miei della Barca che pas­sa­rono il Po. Il coman­dante si inca­volò come una bestia per­ché lasciai il posto per andare con loro, però rien­trai, e entrammo in Torino, mi ricordo con la moto, il side­car. E furono giorni di com­bat­ti­menti feroci. Torino è l’unica città dove si è vera­mente com­bat­tuto tanto, e ci sono degli epi­sodi che non sono stati forse rac­con­tati. La cosa ter­ri­bile di Torino è che c’erano i fran­chi tira­tori, i quali non spa­ra­vano con­tro i par­ti­giani: spa­ra­vano con­tro chiun­que, era un’azione ter­ro­ri­stica. E chi li orga­niz­zava era que­sto Solaro che fu poi impic­cato allo stesso albero di Igna­zio Vian che era un eroico par­ti­giano nostro impic­cato dai fasci­sti. Solaro fu preso non so come, e comin­ciò a dire che era un uomo di sini­stra, che aveva ade­rito al par­tito fasci­sta per­ché voleva che diven­tasse comu­ni­sta… Il tri­bu­nale mili­tare ne ordinò la m+orte. Mi ordinò di farlo impic­care. Fu inca­ri­cato un gruppo della 19ma, però andai anch’io. Ed è una cosa spa­ven­tosa, que­sto uomo distrutto che sa di essere ammaz­zato; per quanto tu possa essere preso dal livore e dall’amore di giu­sti­zia, ti fa sem­pre male vedere un uomo morire in quelle con­di­zioni. Io ero con­tra­rio alle impic­ca­gioni, tanto è vero che ho chie­sto se pote­vamo fuci­larlo, mi dis­sero no; qual­cuno tirò fuori il codice inglese, ma la verità è che vole­vano resti­tuire alla popo­la­zione que­sta visione del col­pe­vole, l’ orga­niz­za­tore dei fran­chi tira­tori. E si ruppe la corda, lui cascò, io andai per sal­varlo, mi sem­brava che fosse il mio dovere, e a quel punto la popo­la­zione sopraf­fece lo schie­ra­mento di que­sti uomini della 19ma, lo impic­ca­rono e impic­cato lo por­ta­rono in giro per Torino fin quando lo but­ta­rono nel fiume»

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