Le elezioni e
l’apologia del ventennio
GLI ITALIANI SI SONO ASSOLTI DALLA VERGOGNA FASCISTA
Molti non ricordano più le guerre volute da Mussolini e l’assassinio di tanti
oppositori
L’«indulgenza» dei romani che hanno eletto Alemanno
L’editoriale di PATRIA INDIPENDENTE, mensile storico dell'Anpi nazionale, sul numero di marzo 2013
Di Aldo Cazzullo
Questa campagna elettorale sarà ricordata anche come quella
in cui l’apologia di fascismo divenne consuetudine. Proprio perché non è più
considerata un reato, non fa più scandalo, e anzi – purtroppo – fa prendere
voti. Su un punto, e solo su quello, l’ex ministro Renato Brunetta ha ragione: Silvio
Berlusconi ha detto cose che molti italiani pensano. Voglio sperare che non sia
la maggioranza, come ha detto Brunetta; ma il timore ce l’ho.
Perché gli italiani si sono autoassolti dalla vergogna del
fascismo. Imputano al nazismo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale e dello
sterminio degli ebrei. E si raffigurano il Duce come un buon padre di famiglia,
un amante focoso, uno statista avveduto che fino al ’38 le aveva azzeccate
quasi tutte. Che è poi quel che ha detto Berlusconi, oltretutto nel contesto
della Giornata della Memoria.
Non, si badi bene, che “il Duce fece anche cose buone”, come
da banalizzazione successiva (e ci mancherebbe altro che in vent’anni di potere
assoluto il Duce non avesse fatto anche qualcosa di buono); ma che “per tanti
altri versi aveva fatto bene”, ad eccezione si capisce della persecuzione degli
ebrei. Il problema – e questo non solo Berlusconi, ma molti altri italiani lo ignorano
– è che nel ’38 il Duce aveva già provocato direttamente o indirettamente la
morte dei suoi principali oppositori: Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, Antonio
Gramsci, Carlo e Nello Rosselli, don Minzoni, Giovanni Amendola. Aveva fatto
bastonare don Sturzo, un sacerdote, e Piergiorgio Frassati, un santo. Aveva preso
il potere nel sangue: solo a Torino, decine di morti, con il segretario della
Camera del Lavoro ucciso, il corpo legato a un camion e trascinato per le vie
della città. E aveva preparato – a parole – per quasi vent’anni una guerra poi
ignominiosamente perduta.
Vada Berlusconi a ripetere i suoi giudizi in Val Maira, in
Val Varaita, in Val Gesso, nelle vallate del Piemonte povero dove il fascismo
reclutò gli alpini della Cuneense, mandati in Russia a congelare con gli
stivali di cartone (come i loro coetanei trentini e giuliani); e dove poi i
nazisti invasori si accanirono sulla popolazione civile e sui partigiani,
purtroppo affiancati dai loro collaboratori fascisti.
Purtroppo la memoria del regime non è la stessa in tutta
Italia. A Roma ad esempio si tende a essere abbastanza indulgenti: bene o male
il fascismo ha dato all’Urbe un nuovo assetto urbanistico, un nuovo quartiere come
l’Eur, ospedali e stazioni, un hinterland con le borgate, un retroterra con la
bonifica delle pianure pontine, una piccola borghesia impiegatizia con
l’espansione dell’apparato statale; soprattutto, il fascismo ha inculcato nella
testa degli italiani – sia pure in forme rozze e antistoriche, tipo il mito
dell’Impero con fasci littori e aquile – l’idea di Roma capitale. Non a caso i
romani hanno eletto sindaco Gianni Alemanno, in gioventù estremista di destra,
e tuttora sui muri della capitale l’effigie del Duce compare a ogni angolo, spesso
con gli occhi spiritati dei giorni terribili di Salò. Una vergogna, che
purtroppo moltissimi romani non considerano tale.
Eppure è davvero difficile andare fieri di aver rinchiuso i
libici nei campi di concentramento sulla loro terra e mandato i loro capi a morire
di tifo alle Tremiti, bombardato gli abissini con l’iprite, attaccato la
Francia con i tedeschi già a Parigi, aggredito la Grecia, condotto una politica
di occupazione in Jugoslavia da migliaia di morti, affiancato i nazisti nella guerra
di sterminio in Russia, mandato buona parte degli ebrei italiani ad Auschwitz,
per lasciare infine la patria semidistrutta e contesa da eserciti stranieri.
Alla retorica di un’Italia tutta antifascista si è
sostituita una retorica uguale e contraria, per cui tutti gli italiani sarebbero
stati fascisti. Non è andata così, e non solo per i 30 mila passati sotto il
giogo dei tribunali speciali; se gli antifascisti militanti furono ovviamente
una piccola minoranza, almeno fino alla guerra, non per questo può ascriversi
al consenso la popolazione rurale, rimasta ai margini della vita pubblica, e
tanto meno quella operaia.
L’antifascismo, per me, non è una parola morta ma un valore
imprescindibile, come l’aria e l’acqua. Attardarsi nella difesa impossibile del
fascismo è un guaio non tanto per la sinistra, quanto per la destra. Infatti l’Italia
è l’ultimo Paese al mondo in cui destra è sinonimo di fascismo, anziché di
legalità, merito, responsabilità, nazione. Costruire una cultura di destra
liberale è un compito importante, più ancora che riconoscere le ragioni dei
ragazzi di Salò e anche dei bonificatori dell’Agro Pontino; compresi i 20 mila
coloni veneti uccisi dalla malaria, derubricata dal regime ad “arresto cardiaco”.
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